Camminare, passo dopo passo, con la gente
Suor Iliana Sgroi,
classe 1959. «Sono nata lo stesso anno di Evo Morales!» dice con orgoglio,
volendo sottolineare la sua ammirazione per il presidente della Bolivia, paese
in cui sta lavorando attualmente. Originaria di Cura di Vetralla (VT), e con
radici siciliane, Suor Iliana ci racconta la sua significativa esperienza di
lavoro nelle aree indigene, e lo fa con l’entusiasmo e la simpatia che la
contraddistinguono.
Suor Iliana e suor Stefania, durante il percorso "Sulle orme dell'Allamano" a Castelnuovo don Bosco - settembre 2010 |
Quando sei arrivata in
Argentina? Sei subito andata a lavorare con gli indigeni?
No, sono arrivata qui come juniora nel 1989. Il primo anno
l’ho speso a studiare la lingua castellana, quindi ho studiato come assistente
sociale nella scuola diocesana. Questa esperienza mi ha aiutato tantissimo,
furono quattro anni di reale inculturazione: sia per la materia - che si
occupava dell’area sociale, e che richiedeva molto tirocinio, perciò conoscenza
diretta delle realtà - sia per i professori e i compagni di corso, che mi
educavano. Perché venivo con la mia struttura occidentale in molte cose… Poco
per volta ho imparato a comprendere cose che a prima vista non avevo capito.
Dopo questo tempo di inculturazione profonda, sono stata destinata alla
missione di Comandancia Frías, con il popolo Wichi.
E’ stato il tempo in
cui si iniziava la comunità?
No, la comunità già c’era da uno, o due anni, però era quasi
all’inizio dell’esperienza. Io non sapevo niente degli indigeni, però quando ho
ricevuto questa destinazione, mi sono sentita molto felice, perché sentivo che
era il mio posto. Avevo la percezione che non sarebbe stato facile, e in
effetti non lo fu, perché la realtà era molto complessa, tuttavia sentivo che
era il mio posto.
Perciò, arrivai a Comandancia Frías nel 1994, e il fatto che
mi toccò moltissimo nel mio cammino lì, fu che in quel tempo si stava
riformando la Costituzione, a livello nazionale e provinciale, perciò io, che
partecipavo all’ENDEPA (equipe nazionale di pastorale indigena), ho capito
l’importanza del momento e del lavoro da compiere: era l’occasione in cui gli
indigeni potevano far riconoscere i propri diritti, in maniera che le
costituzioni considerassero anche la loro realtà. Non che essi potessero
lavorare direttamente alla riforma, ma formavano gruppi di rappresentanza che
entravano in dialogo con chi lavorava a questa riforma. Era un lavoro molto
interessante, al quale partecipavano tutte le etnie, sia a livello provinciale
che nazionale.
Come si svolgeva
questo lavoro?
C’erano avvocati e altri professionisti che aiutavano i
gruppi indigeni a concretizzare proposte e a presentarle. Ho partecipato
anch’io a una settimana per la riforma della costituzione provinciale del
Chaco, insieme alle etnie presenti in quella regione: Toba, Mocovi e Wichi. La
cosa che mi colpiva era come la gente si preparava: formavano gruppi di studio,
proponevano, discutevano per arrivare ad un consenso generale, poi andavano nel
luogo dove si lavorava alla riforma della Costituzione, insieme agli assessori
e avvocati che li aiutavano, e che gioia quando potevano dirsi: “Bene, ci siamo
riusciti!”
Era un lavoro che coinvolgeva diverse Chiese cristiane, e mi
fece innamorare della causa indigena, non per quello che ho potuto dare,
piuttosto per quello che ho ricevuto. Perciò ritornai a Comandancia Frías con
una forza molto grande: lì, a quel tempo, c’era una lotta molto grande per la
terra, perché si trova in una riserva indigena, però la terra non apparteneva
loro, i Wichi non avevano un documento che attestasse la loro proprietà.
Hai lavorato con i
Wichi in questa lotta per il riconoscimento della terra?
Sì, ho iniziato a lavorare con la gente, ad entrare in
relazione con loro, una relazione che coinvolgeva molto affettivamente. Come
tutti gli indigeni, i Wichi sono contemplativi, osservano molto, prendono il
tempo necessario prima di darti fiducia, anche perché molte volte pagarono le
conseguenze dell’incontro con i bianchi. Però fu una storia, giorno dopo
giorno, di molta fiducia. Io sentivo, ad un certo punto, che la lotta del
popolo era la mia lotta, le loro speranze, le mie speranze, la loro sofferenza,
la mia. Perciò, quando vedevo che le cose non andavano bene circa la questione
della terra, o per il taglio degli alberi (perché distruggevano tutto ai
Wichi!), era un dolore molto forte per me. Ho camminato con il popolo.
A me piace l’immagine che si usa nel libro “Il Piccolo
Principe”, quando parla del “lasciarsi addomesticare”. La realtà indigena mi ha
addomesticato, è entrata in me, ed ho sofferto tanto quando ho dovuto lasciare
la missione in Comandancia Frías per un servizio in Italia. Sentivo di aver
tradito il popolo, e fu impressionante vedere come la gente se ne accorse prima
che ne parlassi apertamente. Una signora mi disse: “Ci siamo accorti che forse
te ne vai…” Io non potevo dire nulla, mi misi a piangere, le signora mi guardò senza
dir nulla.
I Wichi di solito non sono molto espressivi, nel senso che
apparentemente esprimono poco i propri sentimenti, però tutte le donne vennero a
darmi un piccolo dono per la mia mamma. Venne persino una donna scorbutica, con
la quale spesso litigavamo perché voleva che comprassimo a tutti i costi i suoi
prodotti artigianali, che erano tanto brutti... Proprio lei mi disse: “Ti
vogliamo tanto bene”.
Io ripetevo loro: “Certo, io devo andare, però c’è sempre
Marisa, l’ingegnere, che può continuare il lavoro”. E loro mi rispondevano:
“Però Marisa non è Iliana…”
Ci vuoi raccontare
qualche episodio significativo?
Dovete sapere che il gruppo Wichi di Comandancia Frías era
isolato per la sua storia, e anche per la posizione geografica. Erano isolati
dagli altri gruppi Wichi, i meno preparati e i meno in comunicazione con gli
altri. Per esempio, non ci sono mezzi pubblici che li collegano agli altri
insediamenti, cosa invece che c’è tra altri gruppi. Perciò fin da subito
capimmo che era necessario farli uscire dall’isolamento, che uscissero ed
avessero contatto con altri indigeni, per uno scambio di ricchezze e anche
perché trovassero fiducia in se stessi, e poter dire: io sono indigeno, sono
orgoglioso di esserlo, e la mia parola ha valore. Siamo riusciti a fare questo
cammino: che bello quando si andava dal governatore, dai deputati, o anche quando
veniva la polizia, e come con il tempo i Wichi impararono ad esporre il proprio
pensiero e a difendere i propri diritti. Per la situazione, anche per
l’analfabetismo, molti loro leaders
avevano paura di parlare, anche perché esprimersi in spagnolo era difficile per
loro.
Quali erano i problemi
concreti da affrontare?
Fu una lotta su vari frangenti. Molto forte fu il problema
del taglio degli alberi per il commercio del legname, si fece pressione fino a
quando approvarono una legge che proibiva il taglio di alberi nella riserva.
Però il disboscamento continuava lo stesso. Un giorno arrivò notizia che
stavano tagliando alberi. Parlammo tutti assieme e alla fine si decise di
andare sul posto per fermarli. Andammo con un trattore sgangherato, che quasi
prese fuoco per strada, e alla fine, trovando un uomo che stava tagliando gli
alberi, i Wichi gli parlarono, ebbero il coraggio di rivendicare i propri
diritti “perché noi siamo i padroni di questa terra”.
Ci furono molti episodi come questo. Ci furono molti viaggi,
molto movimento. Alla fine gli indigeni di Frías erano i più preparati, perché
partecipavano molto di più degli altri gruppi, pertanto ad un certo punto
iniziarono a visitare gli altri centri Wichi per spiegare la questione della
terra: portavano mappe, parlavano…Scoprirono che il territorio della riserva
era di 300.000 ettari!
I Wichi sono cristiani
evangelici. Come avete vissuto, voi missionarie cattoliche, il rapporto con un’altra Chiesa?
Sì, i Wichi appartengono alla Chiesa Evangelica Unita. Non
abbiamo mai invitato nessuno a passare alla Chiesa Cattolica, abbiamo lavorato
insieme e anche pregato insieme. I pastori ci chiedevano formazione, e
organizzammo persino un corso biblico con l’aiuto di Mabel Quintero, e alla
fine del corso consegnammo ad ogni famiglia una Bibbia in Wichi.
Noi suore partecipavamo al loro culto. E notammo come la
gente, che nella vita di tutti i giorni parla poco, nel culto si trasformava.
Gente umile, che lì si trasfigurava: cantava, suonava, ballava… All’inizio non
c’era nemmeno un luogo di culto, era la luce delle stelle il nostro tempio
favoloso. Un giorno fecero un esorcismo su di noi: noi in mezzo a loro, in
ginocchio, tutti pregarono per togliere il male da dentro di noi.
Volevamo anche che i creoli sapessero che il Wichi ha una
spiritualità forte. Allora in certe occasioni li invitavamo alla celebrazione
da noi, e quando terminava, loro continuavano cantando, pregando, e la gente
rimaneva sorpresa, perché la mentalità comune è che l’indigeno è sporco, non
capisce nulla…
Quali conseguenze
avevano sui Wichi tali pregiudizi?
Matilde, una matriarca che già è morta, diceva: “Alla gente
facciamo schifo. Però non è giusto. La direttrice della scuola ci dice:
“Lavatevi!” però lei non sa dove viviamo, e che non abbiamo acqua…”
Questa percezione di essere disprezzati, di destare ripugnanza , portava i Wichi a
delle scelte che compromettevano persino la loro salute. Per esempio, il caso
della tubercolosi: quando si agisce in tempo, si può guarire, salvarsi dalla
malattia. Ma i Wichi tardavano a presentarsi al medico, perché quando
arrivavano all’ospedale, si sentivano dire in malo modo: “Lavati!” Per esempio,
una signora, che si chiamava Liliana, era malata di tubercolosi, ma non voleva
andare all’ospedale. Ci chiesero di fare da intermediarie, di parlare con
questa donna. Ci spiegò che l’infermiera l’aveva trattata male, e allora
cercammo di convincerla. Ci riuscimmo: la portammo a Castelli, all’ospedale, le
assicurammo che ci avremmo pensato noi a lei.
Un giorno, in cui mi recai nuovamente a Castelli, andai a
visitarla, per vedere come stava. Mentre entro nell’ospedale, un’altra donna
ricoverata mi dice: “Guarda che Liliana tutti i giorni esce per la strada per
vedere se vieni, perché vuole ritornare a casa”. Quando mi vide, era convinta
che ero venuta a prenderla. E così, non potendo dirle di no, prendemmo il bus
che porta fino a Fuerte Esperanza, e lì aspettammo che passasse un mezzo
diretto a Comandancia Frías. Dormimmo lì quella notte, misi il materasso vicino
a suo, perché aveva paura… e il giorno dopo partimmo per Frías…
Ad un certo punto i Wichi avevano veramente molta fiducia in
noi missionarie…
E per quanto riguarda
il tema della giustizia? Anche in questo frangente erano discriminati i Wichi?
Purtroppo sì. Ad un Wichi rubarono un maiale, e poi lo
accusarono di averlo lui stesso rubato, e subito lo arrestarono. Siccome erano
giorni festivi, bisognava agire in fretta, perché non passasse tutti i giorni
festivi in carcere. Pagammo la cauzione, e insieme ad un avvocato di ENDEPA
cercammo di difendere il ragazzo. Veniva, ci raccontava le domande che gli
avevano fatto, e come aveva risposto… e lo aiutavamo nella difesa. Un altro,
solo per essere Wichi, fu arrestato per aver rubato una camicia…
Solo da questi episodi potete capire che il nostro era un
lavoro un po’ fuori dalla norma classica di vita religiosa… senza orari, andare
in luoghi – come le imprese di legname - dove le donne non entravano
abitualmente, e tantomeno le suore….
Io credo che noi, come missionarie, abbiamo una vocazione
nella vocazione. La vocazione missionaria è generale, poi viene un carisma
particolare, che può essere il lavoro con gli indigeni, con le prostitute, con
i barboni… Io ho sentito forte il mio carisma particolare per il mondo
indigeno.
E adesso, ti trovi con
gli indigeni, però in una realtà totalmente diversa: l’altopiano andino
boliviano, dove vivi con il popolo Quechua…
Sì, adesso cammino con il popolo Quechua. E’ un popolo molto
diverso dai Wichi, anche se ci sono elementi comuni. Per fare questo “salto”,
mi ha aiutato molto il corso che ho frequentato per imparare la lingua quechua.
In realtà, non era solo lo studio linguistico, ma un’esperienza che poco a poco
mi ha fatto entrare in questo mondo. Mi ricordo che la professoressa diceva che
la persona è così importante per il quechua, che persino la grammatica lo
riflette, l’altro incide sul mio modo di parlare. Per esempio: ci sono due
forme di “noi”: dipende se l’altro è incluso dentro oppure no. Ho avuto anche
l’occasione – e questo lo considero un grande regalo di Dio – di andare al
Macchu Pichu, la città sacra situata nell’attuale Perù. Una civiltà veramente
sviluppata. E constatare come gli spagnoli, arrivando, hanno disprezzato
qualsiasi espressione di questa civiltà: in Cuzco hanno eliminato ogni elemento
architettonico, e posto sulle macerie le loro costruzioni.
Un altro aspetto fortissimo, è il rapporto con la natura.
E’ un cammino che
richiede tempo…
Sì, è nel quotidiano, che poco per volta si può capire la
maniera di vivere, le persone con più esperienza ti danno luci per intendere di
più, godere e gustare. Però ci vuole tempo. In Poopó, per esempio, quando ti
devono raccontare qualcosa della loro tradizione, non lo fanno molto
facilmente. Ti dicono qualche cosa, poi ti osservano, per vedere su quale
terreno stanno camminando. Quando vedono che c’è approvazione, allora si
sentono incoraggiati a raccontarti qualcosa di più. Certo, molte volte furono
disprezzati, accusati di paganesimo…
E’ importante partecipare a tutto con la gente. Una
professoressa mi disse un giorno: non stancarti mai di andare a visitare la
gente. Al principio non ti lasciano entrare, un po’ per paura, un po’ per
vergogna. Una signora, dopo tanti anni di Comunità di Base vissuta insieme a
noi, ci faceva entrare, sedere sul letto – che era l’unica cosa che aveva – e
ci condivideva il suo cibo… ci dava il meglio.
Parli quechua con la
gente?
Il tema della lingua è veramente importante. Certo, puoi
sempre esprimerti in spagnolo, però poter parlare il quechua è diverso, se non
altro perché la gente vede il tuo sforzo e lo considera un dar valore alla
propria realtà. Una delle guide turistiche in Cuzco, quando fummo al Macchu
Pichu, diceva proprio questo: per il fatto di potersela cavare con lo spagnolo,
raramente gli stranieri si sforzano di parlare quechua. Forse che la nostra
lingua non vale come un’altra? Certo, il quechua non è facile. Però alla gente
colpisce il fatto che studi la sua lingua.
Un'altra cosa che ci ha fatto notare un antropologo locale,
è l’importanza di partecipare in tutto con le gente, anche nel ballo. Una cosa
è assistere, guardando dalla porta di casa o nella strada, una cosa è mettersi in
mezzo insieme agli altri. Quando andiamo agli incontri delle comunità di base a
livello di dipartimento, a me piace vestirmi come loro, e vedo come questo
coinvolge un po’ tutte le donne: chi mi impresta una sottana, chi la gonna, chi
mi aiuta a metter l’aguayo, perché io non so sistermarlo, chi mi dà il
cappello…. sono cose che possono sembrare ridicole, ma sono segni importanti.
Io credo che il cammino è questo: farsi vicina, farsi
sorella, accettando ciò che il cammino ti offre, vivendo così, con il loro modo
di vivere.
Per concludere, puoi
condividere una cosa che ti hanno insegnato i Wichi?
A contatto con i
Wichi, ho scoperto di avere forza, per esempio. Perché mi sono sempre
considerata una donna senza forza, senza capacità di lottare, e con i Wichi ho
scoperto che invece potevo. Non so se sono una donna forte, però ho scoperto
che posso affrontare le cose con forza, e quando c’è da fare qualcosa, costi
quel che costi, bisogna farlo.
Anche il tema del condividere: davanti alla difficoltà, si
fa fronte comune. Molte volte rimanevamo impantanati con il fuoristrada. Certo,
era interesse di tutti uscirne fuori. Ma era un lavoro che si faceva insieme:
tutti uniti per affrontare la realtà che si presentava.
E i Quechua, cosa ti
hanno insegnato?
Il tema della festa, del ballare, della gioia. La vita a
Poopó è durissima, però quando si tratta di festeggiare, si balla, si balla, si
beve pure… però è una maniera di rendere la vita meno dura. Questo è un
elemento molto forte. Puoi essere anziano o giovane, grasso o magro, non
importa: bisogna festeggiare ballando.
E poi l’area spirituale, che è molto forte: la relazione con
la Parola di Dio e con Dio attraverso la natura, è molto forte. Per esempio, le
famiglie, quando la situazione è difficile per diversi motivi, salgono una
montagna e aspettano il sole che nasce, chiedono perdono e si chiedono perdono
l’un l’altro.
Anche i giovani vivono
tutto questo?
I giovani molto meno. I bambini, per il contatto stretto con
gli anziani e i genitori, mantengono ancora la lingua, e partecipano delle cose
tradizionali. Però il giovane sente vergogna di parlare il quechua, per
esempio. E poi ci sono tanti problemi: l’alcolismo (ci sono bevande alcoliche a
buon prezzo che sono delle porcherie), il disordine sessuale e le gravidanze
precoci.
Toglici un’ultima
curiosità: che ti ha insegnato Evo Morales???
Ho imparato tante cose dall’esempio del presidente Evo
Morales. Tutti mi prendono in giro perché parlo spesso di lui, però veramente è
una persona che ha una meta davanti, e costi quel che costi va avanti, ha la
spalle grosse, e procede. Il bene del popolo, prima di tutto, con le lotte, gli
ostacoli, gli attentati, gli insulti, costi quel che costi continua il suo
cammino. Io sinceramente avrei gettato la spugna, perché, dopo tanto lavoro,
tutti insorgono contro di lui. E’ una caratteristica forte del popolo andino:
andare avanti, resistere e lottare. E per questo si sta affermando.
Camminare, passo dopo passo, con la gente
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