Visita alla colonia aborigena Bartolomé de las Casas
Partiamo alle 7.00 di casa: siamo una bella comitiva! Occupiamo tutti i posti della camioneta e lasciamo a casa solo suor Antoniana. Prima ci dirigiamo a Comandante Fontana, nella parrocchia di padre Gustavo. La sua cordialità è risaputa, è sempre molto fraterno con le sorelle. La colonia/riserva di Bartolomé de las Casas fa parte della sua parrocchia: lui la segue da tre anni, però... come muratore!
Padre Gustavo era un cosrtuttore, prima di consacrarsi al Signore. Non ha lasciato,però, la sua passione e competenza nell'area. Non a caso, da quando è a Fontana, non ha smesso un solo attimo di progettare e costruire gli ambienti parrocchiali, che erano particolarmente trascurati. I risultati ottenuti sono ottimi, ad iniziare dalla bellissima chiesa parrocchiale. Nella colonia si è addossato la responsabilità della coordinazione dei lavori per la costruzione di case popolari. Il governo provinciale mette il materiale, la parrocchia insieme alla comunità aborigena la manodopera. Padre Gustavo ha iniziato così, tre anni fa, il suo avvicinamento a questo mondo così distinto, meritandosi, poco a poco, la fiducia degli aborigeni. Il suo sogno è poter creare spazi e occasioni per l'evangelizzazione.
Una presenza passata
In realtà, questa colonia ha una storia molto particolare: negli anni Quaranta erano presenti due sacerdoti e una congregazione religiosa femminile, che seguiva la promozione umana, attraverso la gestione di un orfanotrofio, una falegnameria, altri corsi professionali per donne. Tutto questo in un'epoca in cui a Comandante Fontana nemmeno risiedeva un sacerdote, nè strutture di tal genere!
Tutto questo mi dà l'impressione di una mescolanza di passato e presente, un segno dello scorrere del tempo, e del cambio che esso comporta...
Duecento famiglie su trecento ricevono sussidi statali. Praticamente, vivono da mantenuti. La riserva non ha una buona fama tra gli stessi aborigeni, e in effetti è un ambientemolto conflittivo. Il governo costruisce belle case, c'è una scuola primaria e una secondaria, e pure un ospedale nuovo di zecca.
Luci e ombre, una realtà che non si è mischiata con l'esterno (gli abitanti della riserva sono tutti aborigeni), ma che allo stesso tempo ha smesso di essere ciò che era, senza aver deciso per una direzione precisa, minando così la propria identità.
Passiamo davanti ad una specie di municipio, con i dipendenti fuori, nella veranda, seduti a far niente. E' una scena comune, nella diffusa mal gestione della strutture pubbliche. Lo si vede a Palo Santo, e - immagino - anche nelle altre città... Ma qui siamo in una riserva indigena.
"Non è nella loro cultura sedersi oziosi, hanno imparato dai bianchi...gli indigeni sono laboriosi, non stanno mai fermi..." commenta una sorella, che ha una lunga esperienza di presenza missionaria tra gli aborigeni.
Una storia... a lieto fine??
I popoli nativi rimasti nel nord argentino hanno resistito alla guerra dichiarata dal governo argentino e sono scappati in questa terra che, a fine XIX sec - prima che arrivasse il treno - era impenetrabile. E adesso si trovano raggruppati in riserve, con i limiti stabiliti dal governo, "alimentati" con i soldi del governo, quasi come un pollaio che alleva aquile...
Non c'è un'altra strada? Una storia millenaria non può avere un lieto fine?
Non penso che gli aborigeni debbano rimanere tali e quali a cento anni fa: si tratta di persone, di popoli, non di animali imbalsamati! Ma come fare perché l'interazione con il mondo di oggi non faccia loro cancellare le proprie radici, dopo che tante, tante volte volte i bianchi hanno cercato di cancellarli?
Perché una cultura la si può perdere, si può smarrire la propria identità, ma il colore della pelle, i tratti somatici, no... Potrebbero, le prossime generazioni, non sapere più chi sono, ma vivere sulla propria pelle la discriminazione per una caratteristica somatica, e dare la colpa, magari, al proprio DNA...
Padre Gustavo era un cosrtuttore, prima di consacrarsi al Signore. Non ha lasciato,però, la sua passione e competenza nell'area. Non a caso, da quando è a Fontana, non ha smesso un solo attimo di progettare e costruire gli ambienti parrocchiali, che erano particolarmente trascurati. I risultati ottenuti sono ottimi, ad iniziare dalla bellissima chiesa parrocchiale. Nella colonia si è addossato la responsabilità della coordinazione dei lavori per la costruzione di case popolari. Il governo provinciale mette il materiale, la parrocchia insieme alla comunità aborigena la manodopera. Padre Gustavo ha iniziato così, tre anni fa, il suo avvicinamento a questo mondo così distinto, meritandosi, poco a poco, la fiducia degli aborigeni. Il suo sogno è poter creare spazi e occasioni per l'evangelizzazione.
Una presenza passata
In realtà, questa colonia ha una storia molto particolare: negli anni Quaranta erano presenti due sacerdoti e una congregazione religiosa femminile, che seguiva la promozione umana, attraverso la gestione di un orfanotrofio, una falegnameria, altri corsi professionali per donne. Tutto questo in un'epoca in cui a Comandante Fontana nemmeno risiedeva un sacerdote, nè strutture di tal genere!
la chiesa abbandonata, la gente della colonia, ed uno splendido esemplare dell'albero timbò |
Arriviamo al cuore storico di questa presenza: la chiesa, che mostra is egni dell'abbandono senza perdere la sua imponenza. AL suo fianco i resti dell'orfanotrofio, ora occupato da famiglie, con ancora evidente la scritta sul frontespizio. Dentro alla chiesa ci sono ancora tre statue sull'altare: il sacro cuore, santa Teresa di Lisieux e un altro santo, di cui non mi ricordo più nulla.
Alle pareti, una Via Crucis in buono stato. Il pavimento è ricoperto di escrementi di colombi, che hanno nidificato sulle travi del tetto. Ci sono ancora i resti del controtetto ligneo, probabilmente usato dagli aborigeni per le proprie case, mentre alle finestre non rimane un solo centimetro quadrato di vetro.
La sacrestia è ora adibita ad anagrafe, mentre quella che era l'abitazione del sacerdote, è stata occupata da una famiglia.
quattro chiacchiere con una famiglia |
Incontriamo molte persone, che ci sorridono timidamente e silenziosamente. Nella riserva ci sono 3000 persone, delle etnie Toba e Pilagà. Molti di quelli che ci parlano, sono di padre toba e madre pilagà, o viceversa. "Conosco tutte e due le lingue" ci dice un uomo. In realtà sono dello stesso ceppo linguistico, forse anche per questo e per altre affinità culturali, è stato possibile l'incontro delle due etnie.
I Toba, fieri guerrieri, sono coloro che hanno sottomesso duramente i Wichi, presenti nella missione di Comandancia Frias, e anche qui in Formosa...
Fine della presenza cattolica
"Attualmente ci sono due chiese evangeliche" spiega p. Gustavo "ma la gente frequenta poco. La verità è che la maggior parte non praticano alcuna religione, anche perché non hanno opportunità".
Ma che fine ha fatto la presenza cattolica?
i resti della croce lignea che si ergeva tra la chiesa e l'orfanotrofio |
Nel 1955, in piena epoca peronista, il governo statale taglia i fondi all'opera e le religiose, che non hanno altri mezzi per sostenere il centro, sono costrette ad andarsene. Da allora, più niente.
Si avvicina un uomo dai capelli argentati: ha circa 65 anni, e ricorda bene la figura delle suore, conosciute - ci dice - nella sua infanzia, e non fa che elogiarle. P. Gustavo ci dice che la figura della religiosa è fortemente positiva per tutti nella riserva, anche per chi non le ha conosciute.
Le mie suore iniziano a sognare una presenza a Bartolomé de las Casas, o - come dice suor Mary - a "San Bartolomé"....
Passato presente e presente passato
Vicino ai resti della presenza cattolica, ci sono casette in muratura, che mostrano la parabola della Direct TV. In realtà, quasi tutte le casette che vediamo passando per la strada, sono dotate della parabola. Davanti alla chiesa abbandonata, ci sono scooter e moto belle, parcheggiate all'ombra del gigantesco timbò. Impressiona la loro lucentezza: sembra che non ci sia nemmeno un granello di polvere, eppure le strade sterrate alzano un polverone!
padre Gustavo e noi sorelle di fronte alle rovine dell'orfanotrofio |
Duecento famiglie su trecento ricevono sussidi statali. Praticamente, vivono da mantenuti. La riserva non ha una buona fama tra gli stessi aborigeni, e in effetti è un ambientemolto conflittivo. Il governo costruisce belle case, c'è una scuola primaria e una secondaria, e pure un ospedale nuovo di zecca.
Luci e ombre, una realtà che non si è mischiata con l'esterno (gli abitanti della riserva sono tutti aborigeni), ma che allo stesso tempo ha smesso di essere ciò che era, senza aver deciso per una direzione precisa, minando così la propria identità.
Passiamo davanti ad una specie di municipio, con i dipendenti fuori, nella veranda, seduti a far niente. E' una scena comune, nella diffusa mal gestione della strutture pubbliche. Lo si vede a Palo Santo, e - immagino - anche nelle altre città... Ma qui siamo in una riserva indigena.
"Non è nella loro cultura sedersi oziosi, hanno imparato dai bianchi...gli indigeni sono laboriosi, non stanno mai fermi..." commenta una sorella, che ha una lunga esperienza di presenza missionaria tra gli aborigeni.
Una storia... a lieto fine??
I popoli nativi rimasti nel nord argentino hanno resistito alla guerra dichiarata dal governo argentino e sono scappati in questa terra che, a fine XIX sec - prima che arrivasse il treno - era impenetrabile. E adesso si trovano raggruppati in riserve, con i limiti stabiliti dal governo, "alimentati" con i soldi del governo, quasi come un pollaio che alleva aquile...
Non c'è un'altra strada? Una storia millenaria non può avere un lieto fine?
Non penso che gli aborigeni debbano rimanere tali e quali a cento anni fa: si tratta di persone, di popoli, non di animali imbalsamati! Ma come fare perché l'interazione con il mondo di oggi non faccia loro cancellare le proprie radici, dopo che tante, tante volte volte i bianchi hanno cercato di cancellarli?
Perché una cultura la si può perdere, si può smarrire la propria identità, ma il colore della pelle, i tratti somatici, no... Potrebbero, le prossime generazioni, non sapere più chi sono, ma vivere sulla propria pelle la discriminazione per una caratteristica somatica, e dare la colpa, magari, al proprio DNA...
Visita alla colonia aborigena Bartolomé de las Casas
Reviewed by abconsolata
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