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La festa patronale: laboratorio di identità

Il nostro arrivo a Vilacaya fu volutamente fatto coincidere con la festa patronale della Madonna della Candelora, molto venerata in Bolivia, e patrona del paesino. Mai coincidenza fu più azzeccata di questa, perché con l’andare del tempo ci si rese conto che il tempo festivo è un fulcro fondamentale per la cultura contadina quechua.

La gente lavora duro sette giorni alla settimana: la domenica vanno alla Messa le autorità originarie, che poi seguono con le loro riunioni, e pochi altri parrocchiani. La maggior parte della gente continua invece il lavoro dei campi. Se pensiamo che tutto è fatto senza macchinari, e conoscendo quanto la terra è dura, si capisce che la vita dei contadini è massacrante.
C’è solo un momento in cui il ritmo continuo della fatica è spezzato: il tempo festivo, e in modo particolare la festa patronale. Prima dell’evangelizzazione esistevano già le feste, che si prolungavano per diversi giorni, caratterizzati dall’abbondanza di cibo e di alcol. Con l’arrivo dei Conquistadores, i quechua perdono i propri punti di riferimento: cade l’impero Inca, la struttura sociale esistente, e perciò cambiano i rapporti strutturali. In un momento critico come questo, entra il Cristianesimo del XVI secolo: gli evangelizzatori parlano di un Dio Trinità e dei suoi amici, i santi. Il popolo quechua si affeziona a certe figure di santi che hanno maggiori affinità con gli dèi perduti. Con il tempo emergono le figure di San Bartolomeo, San Giacomo, San Pietro, la Madonna Candelaria. Il tempo festivo è recuperato nelle feste dei santi, e lì si inizia a ricostruire una società, con forti legami con la precedente e allo stesso tempo nuova. 

la festa di Sant'Anna
Ho letto in un libro interessante che la festa patronale diventa il laboratorio di identità per il popolo andino, per questo ha una funzione essenziale per la sopravvivenza della cultura. Si ricostruiscono i legami sociali, si mantengono – in una conservazione dinamica e anche creativa – le tradizioni ancestrali, con il risultato straordinario di conservare l’identità quechua: sempre mi sono chiesta come, nonostante 5 secoli di subordinazione, la nostra gente ha potuto mantenere viva la sua fisionomia originaria. Forse una parte della risposta risiede proprio nella funzione fondamentale della festa patronale.

Vilacaya dorme in una tranquillità malinconica tra metà dicembre e metà gennaio: le scuole sono finite, il paese sembra spopolato, e il silenzio regna sovrano. Poi, iniziano a vedersi delle persone girare per le strade; alcune case riaprono i battenti, e alle volte si trovano parcheggiate delle macchine piuttosto belle, con la targa argentina: sono i cosiddetti “residenti”: famiglie iscritte alla comunità (perciò che hanno il diritto alla terra e il dovere del servizio comunitario) che però vivono fuori territorio, i più in Argentina.

La festa patronale in Vilacaya
Nella festa patronale della Candelora sono loro i grandi protagonisti: i passanti della festa (coloro che la finanziano e la organizzano) sono migranti di ritorno a Vilacaya, e la chiesa è gremita da tante persone che, per il loro accento, sembrano più argentini che boliviani (alcuni di loro, in effetti, hanno lasciato il paese da piccoli, e i loro figli sono nati nel vicino paese).
Negli ultimi cinque secoli la festa patronale ha giocato un ruolo fondamentale per mantenere l’identità del popolo, ed oggi sembra che questa funzione continui nei confronti di questi boliviani trapiantati in Argentina. Essi rientrano a Vilacaya con auto costose (molte volte noleggiate per far colpo), caricano l’accento argentino più del dovuto, e ostentano una superiorità da persone realizzate. In realtà, sappiamo che in Argentina i boliviani sono generalmente disprezzati, o per lo meno considerati inferiori. Ricordano una pianta sradicata dalla propria terra e trapiantata in un’ altra non tanto comoda, ma con la tenacia che li contraddistingue riescono a crescere lo stesso e a diventare un alberello di tutto rispetto (in Buenos Aires hanno in mano la maggior parte del commercio di frutta e verdura, con buonissimi risultati).
Nonostante il successo di molti, queste persone ritornano a Vilacaya, ne hanno bisogno, forse proprio per costruire la propria identità, che non può rinnegare le radici e non può lasciare alle spalle le ricche tradizioni ancestrali. Allo stesso tempo la festa mantiene un legame tra chi resta e chi se ne è andato, costruisce cioè nuove relazioni sociali, in una realtà che apparentemente è immobile da secoli, ma che proprio oggi è in profondo cambiamento, in una continua e accelerata mobilità umana. La festa diventa allora il laboratorio di identità per questa nuova realtà: una comunità non più stabile e raggruppata sul territorio, bensì dispersa geograficamente, ma che si ricompone per celebrare insieme il tempo festivo e - di conseguenza - celebrare pure la sua comune identità.

la festa della croce e san Giovanni in Vera Cruz
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