Tessendo la vita
“Animali adatti per il clima dell’Impenetrabile, il clima più duro del paese…” dice la pubblicità della radio locale, promossa da una azienda agricola che alleva tori riproduttori. Annuiamo con la testa: stiamo viaggiando nel fuoristrada, per ore e ore sul cammino sterrato, fuori il sole scalda spietatamente e mette a dura prova le ruote che saltano sul terreno rovente: sì, siamo d’accordo, l’Impenetrabile ha il clima più duro dell’Argentina, e grazie a Dio all’interno del veicolo abbiamo l’aria condizionata!
La vita delle donne WichiAnche i visi delle persone testimoniano la severità della vita da queste parti: sono solcati da rughe profonde, che vengono presto: ci sono donne di 40 anni che sembrano averne 60, e in realtà non ci sono molti anziani a Comandancia Frías, segno che la maggior parte della gente non arriva alla terza età.
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Tutto inizia presto e finisce presto: nell’orto i semi germogliano in fretta, ma poche piante sopravvivono ai raggi del sole e all’aria calda del Vento Nord. E’ così anche per la vita delle persone: le donne – soprattutto le donne Wichi – hanno il primo figlio ai 14-16 anni, e i nipoti a 30-35. Le vedi camminare per il paesino con vestiti sgargianti, in nessun momento si muovono da sole: con una figlia, o un nipote, o una sorella, sempre silenziose, anche quando le salutiamo per la strada, ricevendo in cambio un loro sorriso.
Alle volte bussano alla nostra porta per vendere gli oggetti del loro artigianato: borse, astucci, soprammobili tessuti pazientemente con il filo che si ricava dal chaguar, una pianta grassa come l’agave, che loro stesse raccolgono, battono per ricavare le fibre e poi filano. Il lavoro artigianale delle donne Wichi dice molto della loro vita: sono necessari tempi lunghi (per confezionare una borsa di media grandezza lavorano 3-4 settimane), un lavoro fatto con pazienza e nel silenzio, la cui vendita permette loro di ricevere qualche spicciolo, che subito usano per comprare alimenti per la famiglia. Allo stesso modo, le donne Wichi vivono la loro vita nel silenzio e con la pazienza tipica delle madri, tessendo la vita della famiglia, lavorando sempre per il bene dei propri figli.
La storia di Elva
Era un sabato mattina, quando Elva bussò alla porta, e non veniva per vendere artigianato. La notte precedente c’era stato un ballo in paese, vicino a casa sua, e come spesso accade erano sorti conflitti tra i giovani Wichi e i Criollos (termine che in Comandancia Frías si usa comunemente per indicare i non aborigeni, anche se di per sé si dà questo nome ai discendenti dei figli di un bianco con un’aborigena). Ma la cosa era andata molto più in là delle solite risse tra ubriachi: qualcuno aveva sparato e due bossoli di cartuccia si erano conficcati nella parete esterna di casa sua. Elva era molto agitata, non voleva che anche questa volta tutto rimanesse nella impunità.
Due giorni dopo la accompagnammo al Giudice di Pace (unica autorità giudiziaria presente nel paese) insieme ad un poliziotto. Elva raccontava l’accaduto, il poliziotto dava la sua versione dei fatti, cercando di dissuaderla a fare una denuncia, mentre il giudice rimaneva impassibile.
Noi due sorelle cerchiamo di mediare: da un lato Elva vuole che si faccia giustizia per quegli spari che potevano uccidere lei o i suoi, dall’altra il poliziotto che inizia a parlare della cattiva condotta dei nipoti della donna. Ma non c’è verso di distinguere le due cose, che entrambe sono vere.
Era un sabato mattina, quando Elva bussò alla porta, e non veniva per vendere artigianato. La notte precedente c’era stato un ballo in paese, vicino a casa sua, e come spesso accade erano sorti conflitti tra i giovani Wichi e i Criollos (termine che in Comandancia Frías si usa comunemente per indicare i non aborigeni, anche se di per sé si dà questo nome ai discendenti dei figli di un bianco con un’aborigena). Ma la cosa era andata molto più in là delle solite risse tra ubriachi: qualcuno aveva sparato e due bossoli di cartuccia si erano conficcati nella parete esterna di casa sua. Elva era molto agitata, non voleva che anche questa volta tutto rimanesse nella impunità.
Due giorni dopo la accompagnammo al Giudice di Pace (unica autorità giudiziaria presente nel paese) insieme ad un poliziotto. Elva raccontava l’accaduto, il poliziotto dava la sua versione dei fatti, cercando di dissuaderla a fare una denuncia, mentre il giudice rimaneva impassibile.
Noi due sorelle cerchiamo di mediare: da un lato Elva vuole che si faccia giustizia per quegli spari che potevano uccidere lei o i suoi, dall’altra il poliziotto che inizia a parlare della cattiva condotta dei nipoti della donna. Ma non c’è verso di distinguere le due cose, che entrambe sono vere.
Il Dio Consolatore
Di solito le donne Wichi parlano poco, non si alterano e non dimostrano pubblicamente i propri sentimenti. In questa occasione, Elva al contrario non taceva, però di fronte al muro del non ascolto, iniziò a dimostrare dapprima rabbia, poi rassegnazione, quindi scoppiò in un pianto dirotto. Dio mio, quel pianto! Un grido che veniva dal profondo del suo essere, e ci straziava il cuore. Non era semplicemente quella situazione a farla piangere, questo era evidente: era il pianto di una vita ripetutamente violentata nella sua dignità, era il pianto di un popolo da secoli calpestato e disprezzato. Al culmine della disperazione, Elva iniziò a pregare nella sua lingua: invocava la presenza del Padre, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo (le uniche parole che riuscivamo a capire), in una supplica che coinvolgeva ogni fibra del suo corpo e del suo essere. E se la preghiera era iniziata nella tensione totale, a poco a poco percepimmo la venuta di Dio, del Dio consolatore, che gradualmente calmava la donna, fino a darle una pace profonda, nonostante la tristezza. Dio si era fatto presente, si era fatto “Dio-con-noi”, “Dio-con-Elva”.
Di solito le donne Wichi parlano poco, non si alterano e non dimostrano pubblicamente i propri sentimenti. In questa occasione, Elva al contrario non taceva, però di fronte al muro del non ascolto, iniziò a dimostrare dapprima rabbia, poi rassegnazione, quindi scoppiò in un pianto dirotto. Dio mio, quel pianto! Un grido che veniva dal profondo del suo essere, e ci straziava il cuore. Non era semplicemente quella situazione a farla piangere, questo era evidente: era il pianto di una vita ripetutamente violentata nella sua dignità, era il pianto di un popolo da secoli calpestato e disprezzato. Al culmine della disperazione, Elva iniziò a pregare nella sua lingua: invocava la presenza del Padre, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo (le uniche parole che riuscivamo a capire), in una supplica che coinvolgeva ogni fibra del suo corpo e del suo essere. E se la preghiera era iniziata nella tensione totale, a poco a poco percepimmo la venuta di Dio, del Dio consolatore, che gradualmente calmava la donna, fino a darle una pace profonda, nonostante la tristezza. Dio si era fatto presente, si era fatto “Dio-con-noi”, “Dio-con-Elva”.
Per la cronaca, Elva fu dissuasa dalla famiglia a non insistere ulteriormente, e l’accaduto rimase così, senza soluzione e presto dimenticato, un po’ come il vento Nord che viene improvviso, alza la terra e schiaffeggia il viso, e poi se ne va, come se nulla fosse accaduto…
(dal sito www.missionariedellaconsolata.org)
Tessendo la vita
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